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Quell'aspetto dell'ambiente che riaffiora attraverso esperienze di mobilità errante, lenta, in piena fisicità con la dimensione naturale dello spazio. Spesso si parla di rumore del mare come qualcosa che si ascolta da una spiaggia, su una barca, ma ce n'è un altro di cui meno si ha coscienza ed è quello dell'acqua mentre si è immersi. Ce ne parla Sabrina Peron, prima italiana che, a nuoto, ha costeggiato l'intera isola di Manhattan, attraversato la Manica e lo stretto di Catalina (California) oltre che essere protagonista di decine di traversate in mare aperto, fiumi e laghi. “Mentre nelle piscine spesso tutto rimbomba tra impianti di aerazione, riscaldamento, purificazione dell'acqua, voci e musiche amplificate, all'aperto è possibile distinguere il particolare: dal fruscio del vento al frizzare delle bollicine a seguito dell'onda che si infrange. Ogni bracciata è un'esperienza di ascolto dettagliato e sensazione fisica attraverso lo spostamento dell'acqua.” Ascoltando queste descrizioni viene da chiedere a Sabrina come riesca a conciliare una dimensione di vita così distante da quella professionale di avvocato civilista nonché scrittrice di testi di diritto, articolista, direttrice di una rivista di filosofia sua materia di seconda laurea. “L'immersione inizialmente toglie fiato ma poi subentra un momento di grande euforia: la testa si svuota e la mente apre a pensieri che nello stress della quotidianità non trovano spazio. A volte, mentre procedo per chilometri, mi vengono in mente risoluzioni importanti riguardo un caso legale che sto seguendo, idee per un testo che sto scrivendo.” E viene anche da pensare all'abisso tra l'ambiente della natura mentre si nuota lontani da tutto e quello quotidiano in cui si è perennemente interconnessi attraverso i dispositivi smart e ovunque sottoposti a stimoli sonori, immaginifici. Chiedo a Sabrina se, a volte, trovandosi lontani dal punto di partenza, e da quello di arrivo, non subentri un senso di eccessivo isolamento. “Di fatto isolati non si è mai e bisogna essere molto attenti a cogliere i segnali dati dagli assistenti che ci seguono in barca, ma anche quelli del vento, delle correnti marine attraverso cui capire come procedere. Ascoltare quando si è in acqua significa orientarsi; nessuno ascolta musica in cuffia perché così facendo perderebbe l'orientamento, e nemmeno verrebbe l'istinto di isolarsi acusticamente perché si è troppo presi dal contesto reale. Sia che ci si trovi in mare, o in un lago (dove ci sono meno stimoli uditivi), ascoltare rimane sempre e comunque fondamentale. Quanto alla vista: si evita di guardare indietro perché la riva può sembrare ancora troppo vicina. Ci si concentra sul particolare. I colori sono molteplici quando li si osserva a stretto contatto con l'acqua. Se si è in oceano aperto durante la notte si assiste a fenomeni di bioluminescenza, resi dalla riflessione notturna del plancton, come trattandosi di un pulviscolo luminoso che rimbalza su uno strato di acqua nero inchiostro: un vero spettacolo!” Si nuota da soli ma ci sono momenti di socializzazione tra chi condivide queste avventure in luoghi spesso lontani da dove si abita, trascorrendovi alcuni giorni, organizzandosi per dormire, mangiare ecc. Come sono i rapporti tra nuotatori erranti anziché agonistici? “Si è uniti da una vena di “ottimismo infondato”. Affrontare una traversata di 12 ore implica allenamento ogni giorno nelle piscine ma fino all'ultimo non si è sicuri di nulla: basta un evento meteorologico per trovarsi ad affrontare degli imprevisti o dover rinunciare in partenza. Questa dipendenza dall'ambiente in ogni sua possibile trasformazione ci accomuna attraverso una sorta di fatalismo che è parte stessa dell'esperienza. Si nuota da soli ma prima, e dopo, c'è sempre di che parlare: della giornata in acqua che ancora deve svolgersi, di quella che si è conclusa descrivendone ogni fase e ogni emozione. Si creano legami forti con persone di tutto il mondo, che continuano a distanza: in questo le nuove tecnologie sono un'opportunità.” Fortunatamente le comunità virtuali sono anche questo e non soltanto dipendenza immateriale: la condivisione è alla base di esperienze reali durante le fasi in cui si è fisicamente distanti. La riscoperta dell'ambiente in ogni suo aspetto, come quello del particolare acustico e visivo, si concretizza attraverso queste nuove forme di erranza e, altresì, le reti sociali che si sviluppano attorno alla comunità. Femminicidio. Un fatto individuale o sociale? E Intanto le donne continuano a essere uccise. Viene da chiedersi come in Italia il numero di femminicidi sia minore rispetto a Paesi meno sentimentalistici come la Svezia, sottovalutando che la violenza di genere si può manifestare anche in assenza di gelosia o possesso. Dati a parte, quando le donne subiscono dei crimini sullo sfondo spesso c'è una cittadina o un sobborgo dove i giovani frequentano la stessa compagnia e la fine di una relazione, specie per un uomo, può implicare uno smacco anche con la comunità. E forse anche quei retaggi di patriarcato, di cui tanto adesso si parla, pesano in quei contesti di ruoli che si tramandano nella gestione delle attività di famiglia, magari a conduzione femminile ma sulla base di un potere decisionale maschile: un sistema sociale che in passato ha avuto anche una sua funzione di unità famigliare da cui scelte coraggiose come quella di opporsi compattamente al fascismo (il caso dei fratelli Cervi), o di creare occupazione e benessere (il caso degli Olivetti, dei Crespi) ma rigido nella divisione dei ruoli con la cura della casa, dei figli e degli anziani, affidata alle donne: ruoli che si sono perpetuati a livello di prassi sempre più incompatibile con i cambiamenti in corso. Questo, in parte, spiegherebbe l'alto numero di femminicidi nei Paesi più moderni perché anche in Svezia si viene dal patriarcato e ancora non si accetta che le donne, già da tempo, si sottraggano a ruoli predefiniti. In Italia i residui di un'insieme parentale che fa riferimento al più anziano, e a chi poi gli succederà, si spiegano anche con un'economia tuttora basata sulla piccola impresa, spesso a gestione famigliare. Ora, tra matrimoni che si disfano, padri incapaci, professionalmente frustrati, primogeniti in giro per il mondo, la crisi di un patriarcato per certi aspetti mai estinto si traduce in senso di fallimento, rabbia, da cui le conseguenze tragiche anche in ambiti di benessere e apparente serenità. Solo da poco si inizia a distinguere femminicidio da delitto generico riconoscendo la premeditazione in quasi tutti i casi. Il numero delle donne che vengono uccise, aggredite, spaventa tutte e tutti perché ognuno ha delle amiche (se non delle figlie, delle sorelle, delle nipoti). Gli uomini sembrano ora disposti a riflettere sul loro passato senza escludere di aver avuto comportamenti maschilisti (seppure non violenti). Partecipano numerosi alle manifestazioni agitando le chiavi; anche quelli che da giovani sfottevano le femministe. Ed è sconveniente che, in un momento in cui, sulla scia dell'emergenza uomini e donne si uniscono mettendo da parte antichi rancori, si venga a creare un gap tra chi sostiene il femminicidio un problema individuale, di ineluttabile propensione al male, e chi culturale, sociale, che coinvolge lo Stato. Di fatto non esistono i presupposti di schieramento (...se non politici) tra modi pensare che non sono così opposti: ritenere chi aggredisce una donna responsabile di se stesso non esclude che in lui abbiano inciso esempi di sopraffazione maschile mentre diventava adulto. Così come attribuire delle responsabilità allo Stato non significa sottovalutare componenti di disagio psichico in chi decide di uccidere; piuttosto sottolineare l'inefficienza degli apparati per la pubblica sicurezza e le complicanze di un sistema economico che costringe una donna a convivere con un uomo violento perché altrimenti non ha dove andare, di che sostenersi. La situazione è complessa ma occorre scindere interventi di prevenzione attraverso l'educazione al genere da quelli di protezione dove episodi di violenza già sono annunciati. Questi ultimi sono più impegnativi perché oltre alla macchina pubblico/amministrativa coinvolgono quella burocratica, legale, ma sono anche gli unici ora in grado di diminuire le aggressioni. Molte sono le donne che avrebbero potuto e che potrebbero salvarsi attraverso operazioni di polizia tempestive (a seguito di segnalazioni giunte ad operatori specializzati) e lo scioglimento di nodi giuridici che impediscono di intervenire per tempo: un'opportunità di rinnovamento per chi adesso rappresenta lo Stato. Mettendo da parte appartenenze politiche nonché idee personali di famiglia, nazione, religione: la protezione del più debole va oltre a tutto ciò. Durante gli anni ‘40 e ‘50, la Repubblica Dominicana era stretta nella morsa della dittatura del generale Rafael Trujilo. Tre sorelle si impegnarono politicamente denunciando gli orrori e i crimini ma il 25 novembre 1960 Patria, Maria Teresa e Minerva vennero torturate e uccise dai sicari di Trujillo. Non è un caso che questa giornata sia legata a un episodio di regime ed è triste pensare che le donne continuino ad essere uccise nelle democrazie moderne per il solo fatto di non volersi sottoporre a comportamenti di possesso e dispotismo. Iniziamo a pretendere l'ascolto di tutte queste storie chiamandole col loro giusto nome. Ovvero femminicidio. Si è svolta domenica 19 novembre la giornata mondiale in memoria delle vittime della violenza stradale, istituita dalle Nazioni Unite nel 1993. A Milano un corteo di ciclisti composto si è mosso da piazza Loreto ai Giardini Calderini nella zona di Sant'Ambrogio dove le vittime sono state ricordate anche attraverso le parole dei loro parenti. Milano in questi ultimi tempi è diventata emblema di un traffico incontrollato al punto che pedoni, ciclisti e monopattinisti hanno perso la vita nelle situazioni di transito più innocue come durante l'attraversamento sulle strisce, l'attesa alla fermata del bus, mentre pedalavano lungo le ciclabili. Per questo, durante i discorsi è stato posto l'accento sulla differenza tra incidente e omicidio stradale ancora ambigua. Di fatto, chi investe qualcuno mentre era ubriaco, distratto dalle tecnologie, superava insistentemente i limiti di velocità, non può essere giudicato al pari di chi ha causato un sinistro incidentalmente. Per questo è stato posto l'accento anche sull'urgenza di imporre a Milano zona 30 che, di per sé, fa diminuire il tasso di incidentistica nei centri urbani. La situazione è anomala a Milano e non solo nel senso di “incidenti” che non avvengono fatalmente bensì secondo comportamenti stradali in partenza scorretti. Dal basso, attraverso manifestazioni di cittadini non motorizzati si cerca di sensibilizzare l'opinione pubblica nei confronti di una realtà comunemente equiparata a un peggioramento generico del traffico, senza che vengano applicati provvedimenti adeguati. Partecipiamo alle iniziative in rappresentanza delle categorie più esposte ai rischi di una mobilità “malata”, nel tentativo di contrastarla, di riportare la strada a quell'essenza originaria di transito nonché condivisione, movimento fisico, cultura. Viva la strada! https://bit.ly/basta-morti-milano I bambini hanno la mente ancora libera, avida di informazioni, capace di contenerne in quantità e assimilarle velocemente, come un grande cesto vuoto che si può riempire a piacimento: ciò può costituire un'opportunità come quella di imparare una seconda lingua senza sforzo ma anche lo svantaggio di assorbire informazioni inutili se non dannose. Difendiamo i bambini, e in seguito gli adolescenti, dall'ascolto coatto di intrattenimenti musicali invasivi. Parlate coi vostri figli, coi vostri nipoti, raccontate loro delle storie, degli aneddoti di vita. Fateli parlare senza distrarvi. Senza l'interferenza di televisioni, radio e giochi elettronici. I bambini devono poter riconoscere la differenza tra un ambiente silenzioso e un altro rumoroso che impedisce di ascoltare e di parlare; non meno devono poter sfruttare quella straordinaria facilità di apprendimento che poi andrà diminuendo.
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